Il benzene è un inquinante professionale ed ambientale con sufficiente evidenza di cancerogenicità nell'uomo, per cui l'Agenzia Internazionale per la Ricerca sul Cancro (IARC) lo ha inserito in classe 1. Per tale motivo il benzene non è più utilizzato come solvente in ambito lavorativo, tuttavia l'esposizione a basse dosi o molto basse di benzene rappresenta ancora un importante problema sia in ambito professionale,nella raffinazione e distribuzione dei prodotti petroliferi ed in alcuni settori dell'industria chimica, che per la popolazione generale, in quanto il benzene è presente nei gas di scarico delle autovetture e nel fumo di sigaretta. Attualmentele, i livelli di esposizione professionale a benzene sono fissati dalle leggi comunitarie pari a 1ppm. I lavoratori dell’industria petrolchimica,gli addetti ai distributori di benzina, possono essere esposti a relativamente alti vapori di benzene, ma anche di toluene e xilene (1,2,3).
L'attività genotossica del benzene e dei suoi metaboliti è stata indagata in numerosi studi in vivo e in vitro (4,5,6), e da queste ricerche ne deriva che la complessità delle vie metaboliche e la variabilità individuale dei soggetti esposti potrebbero essere responsabili delle importanti differenze riscontrate tra gruppi di soggetti esposti. Gli studi in vivo, effettuati sia su animali che su lavoratori esposti, hanno consentito di ipotizzare un meccanismo di danno genotossico da induzione di alterazioni e delezioni cromosomiche piuttosto che di mutazioni puntiformi. Il legame covalente del benzene, e dei suoi metaboliti al DNA, avviene a livelli di esposizione molto bassi, suggerendo che diversi eventi molecolari siano responsabili del danno cromosomico indotto dal benzene (7). In particolare è stato dimostrato che l’induzione del danno nel midollo osseo è dovuto alla formazione di specie reattive dell’ossigeno che si vengono a creare attraverso processi di ossido-riduzione dei metaboliti del benzene. I metaboliti attivi (idrochinone e catecolo) possono inibire la topoisomerasi II, enzima critico nei processi di riparazione e replicazione cellulare. Il benzene può inoltre causare instabilità genica tramite ricombinazione, rotture a doppio filamento e anomalie a carico del fuso mitotico, che causano aberrazioni cromosomiche e numeriche (8,9,10,11).
Attualmente c'è un crescente interesse nella ricerca di markers biologici che possono fornire indicazioni, anche a scopo preventivo, sui danni al materiale genetico indotti da diversi agenti chimici (ambientali, professionali, trattamenti chemioterapici ecc.) o in sindromi con difetti riparativi al DNA.
Studi sono attualmente impegnati nella validazione di altri marcatori genetici, come i micronuclei, che sono risultati essere più facilmente applicabili allo studio di grandi popolazioni (12). I micronuclei (MN) derivano da cromosomi interi o frammenti acentrici che non migrano ai poli durante l’anafase e non vengono incorporati nel nucleo principale, dando origine a nuclei accessori più piccoli. Con il test del MN è quindi possibile rilevare sia effetti clastogeni che aneugenetici, due fenomeni di danno genetico legati agli stadi iniziali della cancerogenesi (13,14). Con l'intento di comprendere i meccanismi alla base dell'induzione dei MN è stata realizzata un'analisi in fluorescenza, utilizzando una sonda specifica per tutti i centromeri umani (MN-FISH)(15). Recentemente (16), un importante studio (HUman MicroNucleus project)ha fornito l’evidenza che una aumentata frequenza dei MN in linfociti è predittivo di rischio cancerogeno in soggetti sani. Il test è stato utilizzato, oltre che in linfociti, anche in cellule exfoliative, provenienti da tessuti epiteliali, che sono facilmente esposti ad agenti chimici. In particolare, le cellule della mucosa buccale possono essere ottenute facilmente, in grande numero, con un metodo non invasivo ben accetto dai soggetti.
Un altro biomarker frequentemente utilizzato per valutare effetti genotossici precoci è il Comet test. E' rapido, semplice, e con opportune modificazioni è in grado di fornire diverse informazioni sul danno (in doppio e/o singolo filamento) e riparo del DNA in singole cellule (17).
Questo metodo è stato ulteriormente modificato utilizzando delle glicosilasi, come la formamidopirimidina glicosilasi (Fpg), l’8-ossiguanina DNA glicosilasi (OGG1) e l’Endonucleasi III (Endo III) enzimi critici nei processi di riparazione che operano per escissione delle basi modificate (BER)(18,19), generando siti apurinici che verranno convertiti in rotture, aumentando così la possibilità di identificare un ulteriore danno cellulare.
Il danno al DNA è l’evento iniziale che porta a tumore nel caso in cui la cellula abbia perso la sua capacità riparativa. L’efficienza nel riparare i danni può essere compromessa da diversi fattori come una ridotta capacità nel riconoscere il danno o per una deficienza degli enzimi riparativi. Le differenze interindividuali nel riparare i danni al DNA possono essere ereditate, essere il risultato di un polimorfismo nei geni riparatori, o derivare da alterazioni nell’espressione genica indotta da fattori epigenetici. Una efficiente capacità di riparazione protegge l’individuo da insulti genotossici, al contrario, una diminuzione di queste difese porta a mutazioni ed aumenta l’instabilità genetica, con conseguente suscettibilità nello sviluppare tumori. La capacità riparativa cellulare può essere valutata in linfociti tramite lo studio della velocità con cui vengono riparati i danni, mediante uno studio di cinetica riparativa. Attualmente, il Comet assay è proposto come un rapido metodo utile per studi di epidemiologia molecolare che può valutare contemporaneamente la sensibilità individuale nel subire e riparare i danni al DNA in cellule facilmente reperibili come i linfociti di sangue periferico.